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Cassazione Demansionamento e Mobbing

Ultimo Aggiornamento: 01/04/2010 11:39
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01/04/2010 11:39



Le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 4063/2010 hanno stabilito che quando il demansionamento finisce per rovinare la salute del lavoratore si tratta di mobbing anche nel caso in cui questi sia un dipendente pubblico.

Nel caso specifico un lavoratore che per un periodo di tre anni aveva svolto il lavoro di un superiore nella veste di direttore responsabile della sezione circoscrizionale del ministero del Lavoro era stato poi trasferito presso l’Ufficio provinciale e costretto alla più completa inattività o, comunque, ad assolvere compiti mortificanti.
Il trasferimento aveva avuto delle ripercussioni sul prestatore tali da renderlo fortemente ansioso, sino al punto da ritenere opportuna una richiesta di pensionamento.
Il lavoratore aveva chiesto al Tribunale prima e alla Corte d’appello poi il riconoscimento di una somma per le differenze retributive correlate alle mansioni superiori e una somma prossima ai 17 mila euro a titolo di danno da demansionamento.
I giudici in primo grado avevano accolto in pieno la richiesta, mentre in Corte d’appello le somme erano state pesantemente decurtate in quanto la nona qualifica professionale era stata ricoperta solo per un tempo determinato e in relazione ad alcune operazioni.
Inoltre i giudici in sede di appello avevano anche ritenuto che il trasferimento presso una sede periferica non dovesse essere qualificato come una punizione, ma piuttosto come l’unica via percorribile nell’ambito di un riassetto organizzativo.
Di diverso avviso la Cassazione che ha fornito una chiave di lettura molto simile a quella dei giudici di primo grado ricordando come sia ravvisabile una condotta lesiva dell’amministrazione quando sia a essa imputabile la violazione di specifici obblighi di protezione dei lavoratori, nel qual caso la responsabilità – sulla base di quanto previsto dall’articolo 2087 del codice civile – ha natura assolutamente contrattuale: assimilabile, pertanto, a quella dell’imprenditore che, nell’ambito dell’attività privata, deve provvedere a tutelare l’integrità fisica e orale dei propri dipendenti.
L’amministrazione nel caso specifico non ha garantito tale integrità in quanto il lavoratore si è visto costretto ad andare in pensione.
Si tratta quindi di mobbing a carico del dipendente che oltre a svolgere funzioni superiori si è trovato ad operare in condizioni assolutamente disagiate.
La Corte non ha invece, ritenuto che al prestatore potesse essere assegnata una somma a titolo di differenza retributiva per le mansioni effettivamente svolte, perché di fatto si era trattato di una sostituzione momentanea di un posto vacante per cui non era stato indetto un vero e proprio procedimento di copertura.

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Direzione Sindacale UGL - Eustema
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